Amore e integrazione nell’era di Facebook: il caso di Antonio Distefano

9788804650423Un ragazzo di 22 anni, una playlist e un mucchio di pensieri “vomitati” al mondo. Lui è Antonio Dikele Distefano, in arte Nashy, vive a Ravenna ma è nato a Busto Arstizio da genitori angolani e ha vissuto per un po’ di tempo anche a Cerignola, in Puglia. Da sempre ama scrivere e il successo mediatico che lo ha travolto negli ultimi mesi gli ha permesso di realizzare un suo sogno. Dopo solo una settimana dalla pubblicazione del suo testo su Amazon a giugno dello scorso anno, infatti, Antonio svetta in classifica tra i libri più venduti. Il libro viene scaricato da 10.000 utenti, i suoi video su youtube arrivano a 40.000 visualizzazioni e lo stesso succede con le sue pagine sui social network.
Adesso tutti i suoi fan aspettano con trepidazione l’uscita del suo libro, Fuori piove, dentro pure, passo a prenderti? che sarà in tutte le librerie il prossimo 3 febbraio. L’idea del libro è nata per raccontare la sua storia d’amore con una ragazza italiana, finita perché la famiglia di lei non accettava il fatto che Antonio fosse un ragazzo nero. Partendo da questa sua esperienza, Antonio affronta il tema dell’amore e del razzismo, alimentato dall’ignoranza e che purtroppo ancor oggi è così radicato in tanta gente…

«I suoi genitori non mi hanno mai visto. Ma a loro è bastato sapere da dove venissi per opporsi al nostro rapporto, per accusarmi di essere uno spacciatore quando non ho mai fumato nemmeno una sigaretta, di non amare la loro figlia solo perché mi sono trasferito per un periodo a Prato per giocare nella squadra di calcio a cinque, in serie B.»

Un ragazzo come tanti altri che ha provato a raccontare la sua vita e i problemi che tanti adolescenti si ritrovano ad affrontare: dalle amicizie perse o ritrovate, all’amore, dalla droga ai problemi economici e via dicendo. La relazione con questa ragazza italiana fa da filo rosso tra tutte le vicende narrate ed è fatta di piccoli momenti che tutti i suoi coetanei vivono ogni giorno.

«E come faccio a dimenticarti quando tutti mi chiedono di te, quando per convincermi che non ti cercherò ti cancello dalla rubrica ma so il tuo numero a memoria?»

Il libro non è un romanzo, nè un racconto ma un insieme di pensieri frammentati, esperienze e vicende vissute, riportate come un flusso di coscienza o un diario, o meglio come tanti post di Facebook e messaggi che Antonio accompagna con un brano musicale per far immedesimare i lettori nei suoi stati d’animo.

«Non siamo dello stesso colore, ma siamo dello stesso amore.»

Una scrittura e uno stile ancora adolescenziali, ma che riescono a far passare il messaggio che è alla base di tutto. Un libro semplice e leggero, adatto ai più giovani e amatissimo dagli adolescenti che si rispecchiano in molte storie raccontate in queste pagine, ma anche un piccolo spunto per riflettere sul problema dell’integrazione in un mondo che è ormai un mix di culture, lingue, colori, religioni e tradizioni diverse che possono diventare un sur plus per il bagaglio culturale di ognuno di noi.

«Credo che i colori li abbiano inventati per rendere più vivace il mondo, non per differenziare le persone. Papà con tono scherzoso diceva: “Ognuno di noi è un patrimonio etnico. Siamo testimoni di un cambiamento. Anche grazie a noi, l’Italia diverrà un paese multiculturale”. Non potevo dargli torto. Noi eravamo la prima famiglia di neri del quartiere, io ero l’unico bambino nero della classe, papà l’unico della sua ditta e probabilmente il primo. Eravamo unici, ma per me quello era uno svantaggio.
Da bambino non capivo il termine ‘sporco negro’. Mi lavavo tutte le sere prima di dormire, mamma era esigente su tre punti: scuola, igiene, non provare a fumare o a bere alcolici. Per il terzo punto mi chiese pure di fare una promessa, che tutt’ora è intatta. “Se no ti ammazzo” mi diceva sempre. Non bisognava sgarrare.
“Antonio vatti a lavare.” “Ti sei lavato i denti? Hai lavato pure la lingua vero?” “Smettila di sporcare lo specchio quando ti lavi i denti! Hai cambiato i calzini?” Un sergente di ferro, a volte una vera e propria tortura. Avessi avuto, a quel tempo, la testa che ho oggi, se qualcuno mi avesse dato dello ‘sporco negro’, avrei risposto: “Guarda, chiamami come vuoi, puoi chiamarmi pure Gianduiotto se ti fa piacere, però non utilizzare ‘sporco’ prima di nessun nomignolo perché se poi mia mamma ti sente mi mena”.»


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