Con lo scrittore tedesco W.G. Sebald (perito in un incidente d’auto nel 2001, a soli 57 anni) siamo ai piani alti della letteratura. A un primo approccio può sembrare autore addirittura scostante o noioso: non concede molto al lettore, la sua pagina non conferma certezze, luoghi comuni, aspettative (elementi alla base dei grandi successi editoriali di oggi): qui non assimiliamo il libro a noi stessi, non restiamo chiusi nel cerchio dell’identico, al contrario: siamo sempre spiazzati e, come in ogni vera lettura che si rispetti, facciamo veramente esperienza dell’altro e del mondo.
Per questo i libri di Sebald (il primo a farlo conoscere in Italia fu Bompiani; ormai è edito quasi tutto da Adelphi, nelle splendide traduzioni di Ada Vigliani) non sono, all’inizio, di facile lettura, anzi, richiedono pazienza, dobbiamo imparare a “entrare” in questa scrittura limpida, precisa, esatta come quella di Musil e nello stesso tempo ipnotica, avvolgente, sinuosa come uno scialle di lana, o come le sciarpe di nebbia sui monti, in autunno. Sebald è scrittore autunnale, un po’ umbratile, che attraverso una sorta di elegiaca svagatezza ci può condurre a una metafisica della storia come processo distruttivo, come il cumulo di rovine su cui vola un angelo volto all’indietro: l’Angelus Novus di Klee nell’interpretazione di Benjamin.
Nemmeno questo Austerlitz, con Gli emigrati forse il più “romanzesco” di tutti i suoi libri, anche se è impossibile distinguere nelle sue opere il confine sempre mobilissimo fra invenzione e realtà, ha un ingresso facile. Ma se appena ci si abbandona al ritmo inconfondibile della prosa di Sebald, alla musica di quel suo alter ego che è l’io narrante di tutti i suoi libri, si viene presto catturati. E giunti alla fine vorremmo ascoltare ancora e ancora la voce dolente di Austerlitz, il protagonista di questo straordinario romanzo, che in lunghi monologhi, riportati dal narratore in discorso indiretto, a volte addirittura a incastro, cerca di ripercorrere la sua esistenza di apolide della vita. Di origini ebraiche, professore universitario di storia dell’architettura, erudito, grande camminatore, sempre con lo zaino in spalla, come Wittgenstein, cui pure un po’ assomiglia, solitario e ascetico, Jacques Austerlitz non sa nulla della sua infanzia e della sua famiglia biologica. Sa di essere stato adottato da un pastore inglese (il predicatore calvinista Emyr Elias) e da sua moglie Gwendalyn, di esser cresciuto nel Galles, di aver pensato per anni di chiamarsi Dafydd Elias e di aver appreso il suo vero nome solo ai tempi del college. Poco per volta (questo è il romanzo) ricostruisce il suo passato di figlio di ebrei cechi, arrivato in Inghilterra da Praga, caricato su un treno alla vigilia dell’ingresso in città delle truppe naziste, saprà che il padre si era rifugiato a Parigi e che la madre, attrice di teatro, non era riuscita a raggiungerlo in tempo, ed era morta nel lager di Terežin. I ricordi, vaghissimi, sono più che altro immagini che Austerlitz “racconta”, cioè descrive, in incontri successivi e apparentemente casuali, all’io narrante e, per tramite di questo, al lettore. Ma quanto più rintraccia il filo della propria infanzia e della propria famiglia, della propria storia, tanto più Austerlitz sembra cancellarsi dall’esistenza e come nella leggenda dell’ebreo errante Ahasvero sembra condannato a un eterno pellegrinaggio nella memoria, escluso dalla vita vissuta.
Perché il tempo, per Sebald, non è durata, come in Bergson, e quindi non è “ritrovato”, come in Proust, non può cioè integrarsi nell’esistenza del protagonista che faticosamente lo ricostruisce, come un puzzle. Il tempo per Sebald non esiste, se non come spazio: a un certo punto, parlando della sua ricerca, Austerlitz dice: “Ho sempre più l’impressione che il tempo non esista affatto, ma esistano soltanto spazi differenti, incastrati gli uni negli altri, in base a una superiore stereometria, fra i quali i vivi e i morti possono entrare e uscire a seconda della loro disposizione d’animo”. Perciò Sebald correda tutte le sue narrazioni di numerose fotografie che non sono mai solo di accompagnamento/commento al testo ma ne fanno parte integrante, ne sono come delle ramificazioni.
Così come le meticolose descrizioni di luoghi e monumenti, urbani o sperduti nella campagna, gemmano al proprio interno microracconti fondati essenzialmente su resoconti visivi, cioè non su azioni ma ancora una volta su immagini che restano impresse nella memoria del lettore (a esempio, qui, l’esilarante “racconto” della nuova Biblioteca Nazionale di Parigi).
In due parole: È ancora possibile la grandezza letteraria? L’opera di W.G. Sebald è una delle poche risposte. (Susan Sontag)
Scheda di GIANANDREA PICCIOLI
WINFRIED G. SEBALD
AUSTERLITZ
Editore: ADELPHI
Numero di pagine: 316
Prezzo: € 12,00
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Categories: Lo Scaffale Segreto