Charles Dickens, di cui ricorre quest’anno il bicentenario della nascita, è il dottor Dulcamara della letteratura mondiale. Ma se il finto medico dell’Elisir d’amore di Gaetano Donizetti è un ciarlatano illusionista che affascina e imbroglia gli ingenui campagnoli, Dickens irretisce il lettore nelle spire della sua fantasia inquieta e visionaria. In un articolo recente (di Francesca Lazzarato, in Alias, inserto culturale del Manifesto, 5.02.2012) è stato definito, giustamente, “sciamano della letteratura”. Entrare nei suoi romanzi è come infilarsi sotto un piumone nei letti di montagna: fuori infuria la bufera ma noi siamo al caldo, confortati magari da qualche cioccolatino o da un bicchierone di vin brulé: l’inventiva del grande mago ci afferra e ci scalda, e facciamo fatica a staccarci dalla pagina per tornare alla vita quotidiana e ai suoi impegni. Gioviale e cupo, realista e allucinato, melodrammatico ed esilarante, analista dei mutamenti che la rivoluzione industriale produce nella società e nei singoli, nelle relazioni sociali, fin dentro le stesse facoltà percettive dell’uomo (penso, ma è solo un esempio, alle considerazioni sulla percezione del tempo e del paesaggio visto dal treno in corsa in una delle scene madri di Dombey e figlio), Dickens è, secondo il critico Edmund Wilson, “il più grande scrittore drammatico che gli Inglesi abbiano avuto dopo Shakespeare”. E non solo gli Inglesi, aggiungo, se un altro gigante, Dostoevskij, lo considerava suo maestro.
Quasi tutti i suoi romanzi sono stati pubblicati a puntate mensili (ma a volte anche settimanali) su riviste popolari: questo spiega certi passaggi bruschi dell’intreccio (bisognava tener viva l’attesa del lettore) ma anche certe smagliature nel tessuto narrativo, come la scomparsa inopinata di personaggi minori, ripescati magari dopo pagine e pagine. E spiega anche la macchinosità delle trame e le contrapposizioni a volte elementari di caratteri e sentimenti.
Ogni romanzo di Dickens è come un meraviglioso calderone, in cui entra di tutto: critica sociale, fantasmi, horror, miseria, lusso, condizione operaia, ipocrisia borghese (“fanno il male mentre professano di fare il bene”), nebbia, nebbia e ancora nebbia, paludi, carceri, tante carceri (la piccola Dorrit, indimenticabile protagonista del romanzo omonimo, vive addirittura in carcere per non abbandonare l’anziano padre ivi rinchiuso per debiti, come già il padre di Dickens stesso), tribunali ignavi, impiegati oziosi, orfani, il Tamigi, zitelle, marinai, patrigni, tutori, usurai, vedove, cocchieri, mendicanti veri e falsi… Tutto unificato da una golosità di sguardo, da un’esuberanza dell’immaginazione, da una sensibilità tattile e da una sensualità descrittiva capaci di far vedere fisicamente l’universo raccontato sulla pagina nel momento stesso in cui la si legge. Tutto si imprime nella mente del lettore, anche il personaggio marginale e minimo, magari fissato per sempre a un particolare dell’abito, a una smorfia, un gesto; e altrettanto vale per le cose: quadri, carrozze, scaffali polverosi, parchi piovosi, pozzi minerari… Tutto entra nel grande calderone e assume, soprattutto nei romanzi della maturità e in quelli più tardi, come Grandi speranze o Il nostro comune amico, un valore simbolico o emblematico senza nulla perdere in precisione e concretezza.
Difficile dare suggerimenti di lettura. I romanzi di Dickens andrebbero letti tutti, e molti anche più volte, a distanza di anni. Dovendo proprio scegliere, comincerei dal Circolo Pickwick, uno dei romanzi più felici di tutta la letteratura occidentale, ricco di humour e di nostalgia per un mondo scomparso. Poi Dombey e figlio e David Copperfield, Casa desolata e Tempi difficili. Infine, naturalmente, Grandi speranze e Il nostro comune amico. Le edizioni sono molteplici, anche nei tascabili, quasi tutte buone: con pochi euro si gode per due anni.
“Dickens riesce a portarci come un branco di topi o di ragazzini ipnotizzati ad annegarci nel fiume.” (Mario Lavagetto)
Presentazione di GIANANDREA PICCIOLI
Categories: Lo Scaffale Segreto