Negli anni convulsi dell’ascesa al potere dei bolscevichi si aggira per Mosca, febbrile, instancabile, appassionato, giaccone di pelle nera e revolver in tasca, un teatrante che segnerà la storia del teatro mondiale: Vsevolod Mejerchol’d. Allievo di un altro grandissimo, Konstantin Stanislavskij, altrettanto decisivo per la storia del teatro (e del cinema: il suo metodo è tuttora alla base dell’Actor’s Studio di New York), gli fu legato per tutta la vita ma procedendo, e polemicamente, in direzione opposta. Al realismo del maestro, che al Teatro d’Arte chiede agli attori verità e immedesimazione, alle atmosfere “poetiche” delle sue messinscene cechoviane (“il gracidìo delle rane, il frinire delle cicale, l’abbaiare dei cani, il battere delle pendole”) contrappone, nella teoria e nella pratica, il lavoro fisico e la corporeità dell’attore, l’improvvisazione, lo straniamento, il Kabuki e la Commedia dell’Arte, il circo e il music-hall. Pieno dominio dello spazio, sentimento non effusivo (dall’interiorità all’esterno) ma indotto (dall’esterno, dal gesto che precede l’emozione). Un teatro convenzionale, cioè non mimetico, non riproduttivo. Nello spirito rivoluzionario del tempo Mejerchol’d vuole il decentramento teatrale, il lavoro collettivo nel costruire lo spettacolo, il coinvolgimento del pubblico, l’impegno politico. In tutta la sua attività, antipsicologismo compreso, ci sono Brecht e Barba, le avanguardie degli anni Sessanta e oltre, il teatro didattico, la pedagogia del laboratorio, la ricerca di repertorio contemporaneo. Un suo allievo famoso, il regista Ejzenštein, quello della Potemkin, scrive: “Le sue lezioni erano sogni e miraggi. Si prendevano appunti febbrilmente. Ma al risveglio nei taccuini si ritrovava Dio sa che babele.”
Ma la rivoluzione lo fagocitò. Alla fine del ‘35 comincia in URSS la campagna contro il formalismo: si chiude brutalmente la grande stagione della sperimentazione e dell’utopia in nome del realismo socialista. “Il grande teatro russo abbandona la ribalta per trasferirsi negli spettacoli tragici delle notti di paura in attesa dell’arrivo degli sgherri.” (A.M. Ripellino) Il Comitato per gli affari delle arti chiude teatri, sposta registi e compagnie, li rimescola senza tener conto di culture e stili. All’inizio del ‘36 si apre la campagna contro intellettuali e artisti, accusati da Stalin di deviazioni trotzkiste. Cominciano le autocritiche, non di Mejerchol’d. L’8 gennaio 1938 la sua attività è bloccata in quanto “estranea all’arte sovietica”. Il vecchio Stanislavskij chiama l’allievo “smarrito” a lavorare nel suo teatro, lo accoglie con un grande ricevimento. Ma alla sua morte, nell’estate del ‘38, Mejerchol’d resta senza protezione. Nel giugno del ‘39 viene arrestato; torturato alla Lubjanka, farà umilianti abiure, denuncerà colleghi; poi ritratterà. Il 2 febbraio 1940 è fucilato: Stalin in persona annotava i faldoni coi profili dei casi politici: un segno, fucilazione; due segni, dieci anni di carcere duro. Non si sa dove è sepolto. Poco dopo il suo arresto, il 15 luglio, l’adorata moglie Zinaida Rajch, grande attrice, è sgozzata in casa. I vicini, impauriti, sentirono le urla della poveretta senza intervenire; dissero poi: “Pensavamo stesse provando una scena…”
Lo slavista Fausto Malcovati che a Mejerchol’d ha dedicato molti studi, in questo L’ultimo atto. Interventi, processo e fucilazione, sulla scorta di documenti in parte ancora inediti in Russia, racconta da par suo i drammatici ultimi anni del regista. Non è un romanzo, non è un saggio. È la cronaca di una tragedia storica, tragedia delle persone coinvolte ma anche di utopie rovesciate, di speranze infrante, di vite bruciate: “Ci sono tempi in cui il destino di un uomo ricorda non una partita a scacchi giocata con tutte le regole, ma una lotteria.” (Il’ja Èrenburg).
In due parole: la tragica verità della storia, avvincente come un romanzo.
Scheda di GIANANDREA PICCIOLI
A cura di FAUSTO MALCOVATI
L’ULTIMO ATTO
Editore: LA CASA USHER
Numero di pagine: 240
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